The battle of Britain, Celtic - Leeds United, 1970.

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McGiro
view post Posted on 5/8/2014, 15:43     +1   +1   -1




THE BATTLE OF BRITAIN

Mercoledì, 15 aprile 1970.

The battle of Britain. I giornali hanno sparato il titolone. E l’hanno sparto bello grosso. Una battaglia l’hanno definita. Una battaglia, per il controllo calcistico della Gran Bretagna. Il confronto definitivo tra le due migliori squadre dell’isola. Celtic contro Leeds United. Il confronto definitivo. Punto e basta.
L’aria nello spogliatoio è vibrante. È normale che sia così. È giusto che sia così. In palio ci sono un viaggio per Milano e la finale di Coppa dei Campioni.
«Ci sono centotrentacinquemila persone là fuori», ci dice Big Jock. «Sono venuti qui, ad Hampden, solo per voi. Rendetegli onore.»
Centotrentacinquemila. Un numero incredibile. Una marea impressionante. Un record assoluto. Centotrentacinquemila.
L’idea di giocare davanti a un tale pubblico dovrebbe bastare da sola per caricare gli animi.
Non tutti però la pensano così. In alcuni casi, più che gli animi, a caricarsi sono soltanto nervosismo e tensione. John Hughes è tra questi.
«So che sei incazzato perché ti sei perso l’altra finale», gli fa Big Jock, «ma se mi farai un favore giocando alla grande questa sera, ti prometto che sarai titolare a Milano.»
Sa sempre tirare fuori le parole giuste per motivare i suoi uomini, il grande Jock Stein. Sempre. Vecchio volpone.
Centotrentacinquemila tifosi sono qualcosa che si sente. Eccome se si sente. Sono un qualcosa che scuote le orecchie. Qualcosa che fa tremare la terra sotto i piedi. Mai vista una roba del genere. Mai vista e mai sentita.
Il rumore è così assordante che quasi non sento l’arbitro dare il segnale di cominciare la partita, o meglio la battaglia.
Ma la battaglia ha inizio.
E le cose sembrano mettersi bene.
Si mettono bene, perché Murdoch, Connolly e Auld in un attimo prendono possesso del centrocampo. Lo fanno con naturalezza, senza troppi problemi. Roba non facile quando hai davanti gente come Bremner, Clarke e Giles.
I corner si susseguono, cadono dal cielo come pioggia. Ne battiamo sei nei primi otto minuti.
Sei corner in otto minuti.
Le cose sembrano mettersi bene.
Delle volte si dice “è stato un fulmine a ciel sereno”. Io non l’ho mai visto un fulmine cadere col cielo sereno. L’ho sentito dire tante volte, ma visto mai. Per fare i fulmini ci vogliono le nuvole. Queste prima si caricano di elettricità, dopo se ne liberano con violenza.
Ho un brutto presentimento.
Forse le cose non si stanno mettendo poi così bene.
Vedo un ometto piccolino, ma massiccio. Ha i capelli rossi come i miei. È Billy Bremner. Lo vedo sbucare fuori dalla gabbia del centrocampo, carico di elettricità. Poi una saetta da trenta metri. Dritta da terra all’incrocio dei pali, dove Williams non può arrivare. Un vero fulmine. A ciel sereno. Ora posso dire di averlo visto.
Il pubblico crolla nel silenzio.
Il Leeds United è in vantaggio.
Bisogna reagire. Siamo i Leoni di Lisbona e dobbiamo farlo. Il cacciatore in maglia bianca ci ha ferito, ora sta a noi dimostrare di avere ancora la forza di mollargli un morso o anche due.
«Non mollate!» urla Big Jock dalla panchina. «È passato solo un quarto d’ora!»
Una reazione. Serve una cazzo di reazione. Ci serve subito.
Punizione sulla destra. Un’occasione buona. Un’occasione per dimostrare che i leoni sono vivi e incazzati.
Palla morbida e insidiosa, verso il centro dell’area. Tanto insidiosa che Jack Charlton la manca. C’è McNeill appostato, lì sul secondo palo.
Dai, capitano. Dai.
La palla è talmente insidiosa che viene colto di sorpresa anche lui. McNeill ci prova lo stesso. Calcia al volo, di sinistro. Palla fuori.
Vaffanculo.
Ma ci siamo. Siamo vivi.
Talmente vivi che ci riproviamo subito.
Connolly danza col pallone a centrocampo. Palla filtrante verso la porta. Bobby Lennox si smarca. Corre più veloce di tutti e si trova davanti al portiere.
Corri, Bobby. Corri e segna.
Tocco sotto a scavalcare il portiere in uscita. Una carezza delicata a spingere il pallone verso la porta. A spingere il pallone verso la gloria. Sto già correndo verso di lui per abbracciarlo, quando vedo una maglia bianca col numero 2 tentare l’impresa disperata. E quello che sembra un salvataggio impossibile si trasforma in un recupero impressionante. Medeley ha salvato il Leeds. Sulla linea di porta.
Che tu sia maledetto, Medeley.
Senza lasciarmi abbattere, prendo palla a destra. Davanti a me c’è Cooper. Un vero bastardo, Cooper. Non ai livelli di Diaz, quel capellone argentino incontrato ormai tre anni fa. Non ai suoi livelli. Ma comunque un bastardo. Uno che non si fa troppi problemi a buttarti per terra. Chiedere a George Best per conferma.
«Avanti, Johnstone. Ti aspetto. »
Mi invita a sfidarlo.
Sfida accettata.
Un passo a destra, col pallone incollato all’esterno del piede, poi subito a sinistra. Cooper si sbilancia per il cambio di direzione improvviso; finisce col culo per terra. La passo al centro, per far continuare l’azione. Mi giro a guardare Cooper. Gli sorrido. Così, tanto per provocarlo.
Conquisto una punizione, sul lato destro dell’area. A battere ci va Auld. Il mio amico Bertie. L’area è affollata. La palla è lunghissima, verso il secondo palo e più in là ancora. Là dove c’è McNeill.
«Provaci ancora capitano!» gli urlo.
Lui non mi sente. Non può sentirmi oggi. Non tra le voci di centotrentacinquemila persone. No, non oggi. Non tra queste voci. Non mi sente, ma tira lo stesso. Da posizione defilata. Un diagonale secco, rasoterra. Sprake è preso in controtempo. Non può arrivarci.
E non ci arriva.
Ci arriva però Cooper. Se ne sta li fermo sulla linea di porta, lo stronzo. Il pallone gli finisce addosso. Cosa diavolo ci faccia sulla linea di porta nemmeno lui lo sa.
Dannata sfortuna. Dannato Cooper. Dannato Leeds.
Rientrare negli spogliatoi in svantaggio non è mai bello. Mai. Soprattutto dopo aver giocato nettamente meglio degli avversari. Per questo abbiamo tutti l’aria incazzata.
Il più incazzato di tutti è Hughes. Se ne sta seduto, con la testa tra le mani e i gomiti appoggiati sulle ginocchia. Non dice nulla. Nemmeno si muove. Ciò che sta provando in questo momento è evidente anche per me: sa di non aver dato il massimo. Soprattutto sa di avere una ‘scommessa’ in ballo e che quella ‘scommessa’ la sta perdendo.
«Che diamine John! Te ne sei stato tutto il tempo nascosto dietro Charlton e Hunter», lo rimprovera Big Jock.
«Ha ragione capo.»
«Che cosa ti ho promesso prima della partita?»
«Che se avessi giocato bene sarei stato titolare in finale.»
«E come hai giocato finora?»
«Da schifo, capo.»
«Esatto. Quindi torna là fuori e buttala dentro!»
«Non mi vuole sostituire?» chiede Hughes pieno di stupore.
Big Jock lo guarda. Non dice altro, non risponde a quella domanda. Gli fa solo cenno di no con la testa. E Sorride.
A Hughes si accende il fuoco negli occhi. L’incazzatura e il senso di colpa sono svaniti. Adesso emana soltanto un sano agonismo. Per un attimo in lui percepisco le stesse sensazioni che provai io nell’intervallo della partita contro la Stella Rossa nel ’68. Capisco subito che farà un grande secondo tempo. Sicuro.
«Quanto a voi», riprende Big Jock rivolgendosi alla squadra, «vedete di darvi da fare per raddrizzare il risultato. Non vogliamo mica andare a giocarci un replay a Sheffield, vero?»
«A Sheffield?» domando io.
«A Sheffield. Così è stato deciso.»
Bella decisione del cazzo. No, non ci sto a giocarmi un replay nella fottuta Sheffield. Sarebbe come giocare in casa per gli avversari. Leeds è a uno sputo da Sheffield.
Ci alziamo tutti in piedi.
«Andiamo a vincere!» urla il capitano.
«Andiamo a vincere!» gli facciamo eco noi.
Tempo da perdere non ce n’è. Per questo parto subito in quarta, lungo la fascia destra. La passo a Auld, che subito lancia Hay lungo la corsia laterale. Conquistiamo un corner.
Battiamo subito, per coglierli di sorpresa. Battiamo corto. La palla ce l’ha Auld, che alza la testa a guardare un po’ com’è la situazione al centro dell’area. La mette in mezzo, una pennellata morbida e delicata.
In mezzo, dove Hughes sgomita con Charlton. Sgomita e si libera dalla sua marcatura. Sgomita e si lancia di testa, in torsione.
Impatta col pallone.
Sto col fiato sospeso, io come i centotrentacinquemila sulle tribune. Attimi che sembrano ore.
Poi il boato.
Hughes ha sorpreso Charlton. Hughes ha sorpreso Sprake. Hughes ha sorpreso il Leeds. Hughes ha segnato.
E il leone ha dato il suo primo morso.
Big Jock ha perso la sua scommessa, ma non è mai stato così felice di perderne una. Sa sempre come tirare fuori il meglio dai suoi uomini. Vecchio volpone.
Abbiamo raggiunto il pareggio. È un risultato che basterebbe a consegnarci la qualificazione. Ma non basta. Non mi basta. Voglio di più.
Raccolgo palla nella nostra trequarti, sulla destra. Faccio ciò che so fare meglio: correre col pallone incollato ai piedi.
Corro, verso la linea di metà campo.
Corro, inseguito da Cooper che non riesce a starmi dietro.
Corro, deviando verso il centro.
Corro, ed evito Lorimer quasi fosse un birillo.
Corro, adesso lungo la corsia sinistra.
Da trequarti a trequarti, da destra a manca come una scheggia impazzita. Il pubblico si esalta, la mia giocata li manda in delirio. Cominciano a cantare il mio nome.
Ogni battaglia che si rispetti ha i suoi caduti. Caduti illustri. La battaglia della Gran Bretagna non fa eccezione. A cadere con l’onore delle armi è Sprake, colpito duro da un contrasto con Hughes lanciato a rete. Uno scontro involontario e repentino, tanto che non riesco a capire dove abbia preso la botta. Forse alla testa. Forse alla spalla. Lo portano via una marea di assistenti e medici. Lo portano via su una barella, come un soldato ferito dalla trincea. Al suo posto entra il portiere di riserva, Harvey.
I minuti scorrono. E più scorrono più Cooper diventa matto. Non riesce a prendermi. Non riesce a prevedere le mie finte. Non riesce a fermarmi. Mai. Lo mando sempre col culo a terra. Lui, l’uomo in grado di rendere la vita difficile persino a George Best.
Mi arriva il pallone, e capisco che è il momento buono. Lo capisco prima ancora di stopparlo. Davanti a me c’è Cooper. Ancora lui, sempre lui.
Lo punto.
Arriva anche Hunter, a raddoppio. «Non fartelo scappare questa volta!» urla raggiungendo il suo compagno di squadra. «Buttalo giù!»
Cooper gli risponde seccato. «Perché non ci provi tu, se ci riesci?!»
Alzo la testa e li guardo, fissandoli negli occhi. «Siete solo due poveri stronzi.»
È un momento. Un attimo fuggente. Fingo di volerli saltare, ma con la coda dell’occhio vedo l’inserimento di una maglia bianco-verde. La passo al centro, leggermente arretrata.
«Maledetto!» mi ringhia addosso Cooper.
Bobby Murdoch arriva giù sparato dalle retrovie. Calcia di prima intenzione. Un rasoterra, di collo destro.
Prova a lanciarsi, Harvey. Ci prova ma nulla può. La tocca appena con la punta delle dita. La palla lo supera, la rete si gonfia, lo stadio esplode.
È il colpo finale, la zampata decisiva del leone . È il gol del 2-1.
Mentre corro ad esultare sento Cooper e Hunter discutere tra loro.
«È troppo imprevedibile quel Jimmy Johnstone», prova a giustificarsi il primo.
«Ti sei fatto infinocchiare per tutta la partita!» lo rimprovera il secondo.
«Vorrei vedere te al mio posto. Quel tipo è un incubo. Un cazzo di incubo.»
«Lasciamo stare. Non perdiamo tempo in chiacchiere.»
No che non devono perdere tempo, gli stronzi. Adesso è il Leeds a dover recitare la parte dell’animale ferito. Gliene servono due di gol. Due gol per passare il turno.
Ci provano a farli, scagliando un traversone nella nostra area di rigore. Clarke fa da torre. La appoggia di testa al centro. Williams in porta è sorpreso, non se l’aspettava. Nessuno se l’aspettava.
Merda.
Johnny Giles è lì, pronto a riceverla. Johnny Giles l’irlandese è pronto a battere un portiere già battuto. Si coordina e ci prova al volo, in mezza rovesciata. È un bel tiro. Davvero bello.
Un bel tiro che si spegne a lato.
Sospiro di sollievo.
Sono minuti difficili. Teniamo il risultato con le unghie e con i denti. Il Leeds attacca e noi difendiamo. Il Leeds attacca e si sbilancia.
Rinvio lungo di Williams. Lunghissimo. Ci si avventa Hughes. Di loro è restato dietro solo Hunter, che scivola. Hughes lo supera. Punta dritto verso la porta inseguito da una mandria di uomini in maglia bianca. Sterzata improvvisa a evitare il portiere in uscita.
La difesa rientra.
In supporto gli arriva Connolly. «Johnny! Passa al centro!» grida per farsi sentire.
Hughes lo vede. Io invece vedo che questa partita vuole chiuderla lui stesso. Si capisce subito che l’idea di passarla non lo sfiora nemmeno. Prova il tiro. È un tiro fiacco. Debole. Frutto della stanchezza per la lunga corsa. Si oppone Jack Charlton a quel tiro, respingendolo senza problemi. Hughes alza le mani come a chiedere scusa. Connolly gli impreca contro. Poi lo abbraccia, perché è stato un errore ormai senza importanza.
Bianca come le sue maglie, il Leeds United espone la bandiera di resa.
La partita è finita. La battaglia è vinta.
Big Jock entra in campo. Ci abbraccia uno a uno ringraziandoci per la prestazione offerta. Ci ringrazia per conto dei tifosi. «Grazie davvero, a nome di tutti loro», mi dice indicando le tribune.
Sollevo lo sguardo. Osservo uno a uno i centotrentacinquemila volti festanti che mi circondano.
Sorrido, mentre esco dal campo con due certezze.
La prima è che avrò la possibilità di diventare di nuovo campione d’Europa.
La seconda è che Cooper questa notte non chiuderà occhio. Perché il suo sonno sarà tormentato dagli incubi lasciati in ricordo da un folletto scozzese coi capelli rossi di nome Jimmy Johnstone.
 
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view post Posted on 7/8/2014, 00:20     +1   -1
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:scozia:
E alla fine: giro d'onore !!!
 
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view post Posted on 7/8/2014, 19:49     +1   -1
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che tempi e che tristezza vedere i tempi attuali....
 
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marktheromantim
view post Posted on 8/9/2014, 00:43     +1   -1




Grandissime squadre nel 1970. Oggi è un'altra storia ma quando si ama si ama in maniera incondizionata. Sempre.
 
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3 replies since 5/8/2014, 15:43   69 views
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